Il consumo di carne e la “grande fame” dell’antichità
“Non patisce contrasto il vorace ventre funesto, che di sì fieri guai la gente attrista” (Omero, Odissea, XVII, ρ287-288), si lamenta Ulisse di ritorno dal suo lungo viaggio, e a ben vedere l’impressione generale che si ha di Greci, Romani, e di tutti i popoli del Mediterraneo antico, è che fossero costantemente afflitti dalla fame. Si sa bene come la gente comune si nutrisse principalmente di verdure, legumi e cereali; fin dai suoi esordi come specie evoluta, però, l’uomo si era procurato i propri mezzi di sostentamento principalmente con la caccia e con la pesca. Così, ancora ai tempi di Omero, in tutta l’Odissea si fa un gran mostrare di quanta carne venisse servita sulla tavola per saziare i tracotanti Proci alla corte di Penelope.
Solo uno o due secoli più tardi, Esiodo (VIII sec. a.C.) citerà però a malapena la carne. Il raccolto annuale dei cereali sarà tutta la sua la preoccupazione; da quel momento in poi, la letteratura gastronomica è divisa tra le descrizioni dell’alta cucina dei ricchi (come quelle dei ricettari di Archestrato e Apicio) e la soluzione al problema della fame perenne che afflisse tutti gli altri.
Nei secoli successivi ad Ulisse e compagni, dunque, i bovini divennero sempre più preziosi come animali da lavoro nelle fattorie e per la produzione di latte; per essere visto come una fonte di carne, occorreva che il vecchio bue stramazzasse al suolo, morto di stanchezza, o la vecchia mucca non fosse in grado di produrre abbastanza latte da giustificare la fatica di nutrirla. Possiamo quindi cancellare il “manzo” come voce significativa nella lista degli alimenti della dieta antica.
Ovini e caprini, poi, erano sacrificati agli dei ogni anno, a volte due volte l’anno, in occasione delle maggiori feste religiose, e poi ridistribuiti alla comunità; ma normalmente anche questi animali erano ritenuti troppo preziosi per la produzione di lana e formaggio.
Esiste infine un animale che non produce né latte, né lana: è il maiale. L’unica cosa che il maiale è in grado di produrre sono altri maialini! Ed anche alla svelta, considerando i tempi di gestazione di una scrofa (110 giorni) in confronto a quelli di una capra o di una pecora (5 mesi), e la numerosità delle cucciolate (almeno 8 maialini, contro 1 agnellino o 1 vitellino). Il maiale è anche più facile da allevare, essendo fondamentalmente onnivoro; mangia qualsiasi tipo di verdura, foglia, seme, frutta, radice, e perfino i resti di altri maiali macellati. Così, una volta raggiunta l’età di otto mesi, il maiale poteva fornire alla comunità antica più di 50 kg di carne! E già mi pare di vedere il primo uomo a macellare un maiale cominciare a chiedersi come conservare tanta abbondanza per i giorni di fame a venire. Sicuramente “mettere sotto sale” fu la prima attività e quella più naturale e spontanea.
I greci tuttavia erano autori troppo raffinati per tramandarci notizie e metodi sulla conservazione della carne; la maggior parte delle informazioni le ricaviamo oggi da autori romani. Nel De Re Rustica, Catone (III-II sec. a.C.) descrive passo passo il processo di salatura della carne per la preparazione di una specie di prosciutto, che avveniva in vaso alternando strati di sale a strati di carne; Columella (I sec. a.C.) poi aggiungerà al metodo di Catone anche quello tutt’oggi usato nell’Italia settentrionale per la preparazione del classico prosciutto crudo, in cui la coscia viene lasciata intera, essiccata e disossata e al posto delle ossa viene inserito il sale.
La carne salata, come il prosciutto, divenne quindi molto presto una grande, importante, riserva di cibo e di proteine animali nell’antichità: al secondo posto troviamo le salsicce. Condire la carne, il grasso ed altri avanzi e porli all’interno di un budello che fungeva da “contenitore” aveva l’innegabile pregio di riutilizzare tutti i resti della macellazione del maiale e allo stesso tempo di nasconderli alla vista degli schizzinosi!
Ma la fantasia culinaria dei romani per la conservazione della carne nell’era “pre-frigorifera” è vasta e creativa: Apicio suggerisce anche una conservazione della carne bollita in un brodo condito con miele (vi ricordate la pubblicità della Simmenthal®?). Nonostante l’abilità dei Greci e dei Romani, è evidente come la comunità antica non avrebbe mai potuto fare affidamento sulla carne come alimento base della dieta, al contrario del nostro prospero contemporaneo “primo mondo”: i metodi dell’archeologia sperimentale hanno calcolato che 150 g a persona di carne salata alla settimana era la razione media di un antico greco o romano!
E tuttavia pare che sia stato sufficiente a rispettare le esigenze alimentari in fatto di vitamine e minerali da proteine animali fino ad oggi…riflettiamoci su!
A cura della archeologa Nadia Barone
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