Il Natale che è da poco trascorso con i tradizionali “eating contest” familiari, per me è stato occasione per riflettere su una cosa che a prima vista può sembrare banale, eppure non lo è per niente: la distinzione fra appetito e fame è un concetto assolutamente moderno. Nasce nell’800 nelle case dei benestanti, dove il fatto di mangiare non è più una questione di ostentazione, di gusto, di status sociale o di fame. Mi spiego meglio. Fino all’età moderna, la storia dell’appetito, anche a Natale, vedeva due protagonisti, i ricchi e, ovviamente, i poveri. Nel passato, la capacità di soddisfare un appetito vorace, di divorare una tavola imbandita con cibi grassi era il primo segnale di salute, di floridezza, e quindi uno status sociale. C’è stato un tempo in cui definire qualcuno “grasso” era fargli un complimento!
Il Medioevo è dominato da una tipologia di “ricco” che equivaleva a “potente”, a “forte e valoroso in guerra”, la cui capacità di ingurgitare montagne di cibo era quindi un attributo naturale, e una “virtù” necessaria a sostenerlo nelle imprese: nel Rinascimento, le corti italiane introducono invece una figura di ricco che è anche “signore” che non è più o soltanto un grande mangiatore, ma soprattutto un orchestratore di banchetti che dimostrino la sua ricchezza, certamente, ma anche la sua cultura, la sua raffinatezza. Nascono le buone maniere a tavole e il galateo.
E dall’altra parte della società? I poveri sono il rovescio triste di questa storia: la fissazione per il “grasso” per la pancia nutrita e rotonda, nasce proprio per esorcizzare quella per la fame, la paura che il cibo manchi e non ce ne sia a sufficienza per tutti. I ricchi di cui sopra sono solo una ristrettissima parte della società: agli altri non resta che immaginarsi la favola del paese di Cuccagna, dove il cibo è inesauribile e liberamente accessibile a tutti. Il mito di mangiare a più non posso ogni tanto diventava realtà, come a Natale, unico periodo dell’anno in cui il cibo si è sempre ostentato e quasi sperperato, nel passato a ragione però, come risarcimento delle privazioni della vita di tutti i giorni e per propiziarsi una vita migliore nel nuovo anno. Ma tutto questo significava anche un’altra cosa: per secoli una vasta fetta della società ha desiderato mangiare fino a farsi male per l’indigestione per allontanare il più possibile il desiderio frustrante di mangiare. A Napoli nel Settecento, ci racconta Goethe nel suo Viaggio, un ufficiale della polizia, con un trombettiere, passava per le strade elencando la quantità di cibo consumato e il numero di buoi, maiali, agnelli macellati… E tutti a vantarsi col vicino per vedere chi ha partecipato di più a rimpolpare questo elenco!
E oggi? Quanto arriviamo affamati a Natale? Io personalmente moltissimo, perché sono preda, come tanti, della nostra era in cui, in questa parte di mondo, non esiste la fame vera. Però forse abbiamo rimosso anche l’appetito, in nome di un imperativo costante che è quello della forma fisica ideale e che in realtà ha negato al corpo un’esistenza in grado di esprimersi. A partire dal secondo Dopoguerra abbiamo perso le coordinate alimentari secolari, travolti dalla dietetica americana, mediterranea, macrobiotica, dissociata, etc., dal boom dei consumi e da una cultura che è sempre più visiva, virtuale: ci siamo riempiti di regole alimentari che hanno tolto spontaneità all’approccio col cibo, che è sempre più difficile.
Siamo nelle condizioni però di diventare più saggi a partire da oggi, e noi di Idee con Gusto crediamo che poter definire con più consapevolezza il ruolo del cibo nelle nostre vite sia un’opportunità importante per tutti!
Buon Natale…e buon appetito!
A cura di Nadia Barone, archeologa
L’immagine utilizzata è dell’artista Ed Wheeler
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